lunedì 1 settembre 2008

LA VERA STORIA DI JON ALHAFSSON

Jòn Alhafssòn era un aviatore svedese di 56 anni, nato nel 1922 in un piccolo paesino a pochi chilometri di distanza da Sigtuna, paese famoso in tutta la Svezia come “paese dei vichinghi”.
Jòn Alhafssòn aveva un piccolo aereo, di quelli che si vedono ormai solo nei film, quelli che dovevi far girare l’elica davanti a mano per metterli in moto. Era il suo piccolo gioiello. Jòn Alhafssòn, che non aveva figli e che aveva perso la moglie, Inga, a causa di un tumore al cervello che l’aveva consumata in poche settimane, considerava ormai il suo piccolo aereo come il suo unico interesse.
Jòn Alhafssòn mai avrebbe pensato che proprio quell’aereo gli avrebbe fatto vivere l’esperienza più incredibile di tutta la sua vita, e forse anche di tutta la tua vita, e probabilmente di tutta la vita della maggior parte di noi.
La mattina del 13 maggio 1978 Jòn Alhafssòn avviò il suo aereo e decollò per il suo giro quotidiano dentro allo splendente cielo svedese. “Un cielo perfetto per un bombardamento aereo”, pensò tra sé e sé.
Volò qualche miglia verso nord, senza pensare a niente di interessante né per me né per te, pensava a cose sue, cose che noi non possiamo sapere, perché fino a prova contraria di Jòn Alhafssòn sappiamo solo che viveva solo, non aveva figli, aveva perso la moglie per un tumore al cervello e ormai provava interesse solo per il suo piccolo aereo rosso. Altro non sappiamo. O meglio, tu non sai, perché io quantomeno so che in quel 13 maggio 1978 vide cose che voi umani non potete neanche immaginare.
Svolazza di qua e svolazza di là, Jòn era ormai per aria da un’oretta, quando vide il cielo scurirsi. Non fece neanche in tempo a dire “toh, vedo il cielo scurirsi” che si trovò immerso in una nebbia che sembrava tanto fitta quanto finta. Era molto strano, non gli era mai capitata una situazione del genere, l’atmosfera era così particolare, così irreale, che lui sentiva inspiegabilmente in bocca quel gusto metallico tipico di quando si prova paura. Ma non aveva paura, era solo tutto molto strano.
Cominciò ad avere veramente paura quando gli strumenti di bordo cominciarono ad andarsene per i fatti loro: bussola, tachimetro, contachilometri, tutto bloccato. Orientarsi col sole e le ombre era impossibile, visto che intorno c’era solo nebbia. Jòn Alhafssòn era effettivamente preoccupato.
Jòn era ormai in preda al panico e stava già pensando a quale frase avrebbe detto a sua moglie appena l’avrebbe incontrata nell’aldilà. Poi capitò qualcosa di clamoroso: la nebbia svanì da un momento all’altro, il cielo tornò blu, ma non il blu di prima, non un blu normale, era un blu talmente forte che era quasi impossibile staccare gli occhi da quel blu. Riuscì a staccare gli occhi da quel blu solo per guardare sotto al suo aereo, e capire sopra a cosa stesse volando: ghiaccio, una infinita distesa di ghiaccio. Fece due conti, e realizzò che c’era qualcosa di assurdo: aveva volato senza strumenti di bordo per non più di 5 minuti, e sotto di lui non poteva esserci tutto quel ghiaccio, così tanto ghiaccio che sembrava di essere sopra all’Antartide.
Fu proprio mentre pensava alla parola Antartide che si rese conto che non faceva freddo: l’aria era calda. E fu proprio mentre si rendeva conto che l’aria era calda che accanto al suo aereo comparvero due sfere di luce grandi quanto la testa di Sandro Bondi.
A questo punto la storia di Jòn Alhafssòn si fa abbastanza curiosa. Quelle due palle di luce erano la cosa più bella che avesse mai visto. Non lo so per certo, perché io Jòn non l’ho mai conosciuto di persona, ma suppongo che fossero la cosa più bella che avesse visto nella sua vita. Insomma, sarà stata la situazione, sarà che erano proprio belle, ma sono state la cosa più bella che Jòn ha visto in vita sua. Anche perché diciamocelo, Inga, sua moglie, era un donnone svedese, cresciuta assieme a dei boscaioli, e onestamente non era la cosa migliore con cui uno può sperare di addormentarsi la notte. Però va detto che Inga aveva un grande cuore e che Jòn le voleva molto bene per questo.
Jòn Alhafssòn a questo punto del racconto è praticamente inerme dentro al suo velivolo: da quando gli strumenti lo avevano abbandonato, Jòn non aveva più osato toccare niente, un po’ perché si era fatto la cacca addosso (letteralmente, non è una metafora, si era cacato addosso per la paura, e a dirla tutta si sentiva un po’ in imbarazzo: era di fronte a quelle luci abbaglianti, la cosa più bella della sua vita, ed era seduto in mezzo alla sua merda) e un po’ perché l’aereo si muoveva da solo, come se fosse comandato da una strana forza, verso un qualche punto preciso e distante.
I dieci minuti seguenti furono abbastanza insignificanti: Jòn era immobile e muto nel suo puzzo, le luci continuavano ad accompagnarlo e l’aereo ad andare.
Poi, d’un tratto, Jòn vide il ghiaccio lasciare spazio a una distesa di verde, di boschi e prati e fiumi che lo lasciò di merda (questa volta metaforicamente). Jòn capì che il suo destino si stava in qualche modo compiendo quando l’aereo perse quota e cominciò l’atterraggio, l’ultimo atterraggio della sua vita. Scese planando come un uccello, come se quella carcassa di metallo non avesse un peso, come se fosse seduto su una piuma anziché su un sedile di cuoio e sulla sua cacca. Entrò in una specie di tunnel, una sorta di galleria scavata nella roccia, si fece buio, si fece caldo, l’aria si fece soffocante e Jòn svenì.
Quando Jòn si risvegliò si ritrovò disteso su un lettino, al centro di un’enorme stanza di cui si faticava a vedere il soffitto; la luce che emanavano le cose, i muri, le sedie, le finestre, i mobili, lui stesso, era irreale. Si tastò immediatamente le terga e si rese conto che era stato pulito e cambiato, e che quella strana tutina azzurra che indossava era ridicola.
Tant’è, scese dal lettino e si ritrovò davanti qualcuno, qualcosa, un luminoso essere antropomorfo che gli fece un inchino e senza muovere la bocca (che peraltro non aveva) gli chiese come si sentiva e se poteva fare qualcosa per lui.
Ci si aspetterebbe che Jòn fosse terrorizzato, invece l’energia che quell’essere emanava dava a Jòn la sensazione che non c’era niente che potesse metterlo in pericolo, anzi, Jòn si sentiva l’uomo più fortunato al mondo a essere là, provava la sensazione di vivere un privilegio, sentiva che il senso della sua vita gli stava diventando chiaro.
Quella strana entità, ancora apparentemente senza parlare, gli disse di seguirlo, che non c’era tempo da perdere, che grandi cose lo stavano aspettando. Jòn allora lo seguì senza indugi; l’essere si spostava senza neppure toccare terra coi piedi, Jòn camminava dietro di lui sgraziato nella sua tutina.
Quando entrarono nella stanza adiacente, Jòn si trovò di fronte a qualcosa che lo lasciò di stucco. Un essere gigantesco era quello che stava aspettando Jòn. In realtà non era gigantesco, ma così sembrava, aveva un’aurea di enormità, sprigionava un’energia che sembrava inghiottire tutto ciò che gli stava attorno. Jòn gli arrivò a un passo e rimase fermo a bocca aperta aspettandosi di tutto.
Le parole dell’entità risuonarono nella testa di Jòn come un’esplosione: “Jòn Alhafssòn, sei stato scelto come rappresentante della tua specie, oggi il tuo destino ti sarà svelato”.
Jòn era una maschera di cera, voleva dire delle cose, ma non ci riusciva.
L’entità incalzava: “E’ arrivato il momento di un grande cambiameto [disse proprio “cambiameto”, Jòn se ne accorse ma non ebbe il coraggio di fare notare l’errore, tra l’altro comprensibile considerando che lo svedese non sembrava essere la lingua madre di quell’essere parlante], un cambiameto che segnerà la storia della Terra e di tutto l’universo. Ma prima di spiegarti tutto, una domanda è doverosa: Jòn Alhafssòn, vuoi tu farti carico di tutto questo? La tua vita non sarà più quela [un altro errore] di prima, non potrai mai più tornare indietro. Se mi dirai di fermarmi, non procederò oltre, ti accompagneremo a casa e tu tornerai alla tua vita.
Dimmi, allore
[“allore” anziché “allora”]...”.
Jòn dovette prendersi alcuni secondi per riordinare le idee e per formulare un pensiero sensato, poi raccolse un po’ di fiato e disse: “Ma... tu sei... Mike Bongiorno!”.
L’entità fece una smorfia, si girò verso il suo simile, scosse la testa un paio di volte e poi sbottò: “Ora non importa chi sono io... sono Mike Bongiorno, ok, ma sono anche un sacco di altre cose, tu non sai niente di me... sono Mike Bongiorno, ma non è che passo la vita, e bada che ho 236 anni, a fare giochi in tv...”.
L’entità, visibilmente spazientita, tossì, inspirò, dopodiché riprese: “Sono Mike Bongiorno, sì, ma in realtà mi chiamo Yrghl [questo è il suono che emise, non so come si possa tradurre in lettere], contento? Ora, brutto svedese cacacazzi, vuoi rispondere alla mia domanda? Vuoi o no che ti spieghi cosa sta succedendo qui?”.
Jòn si ricompose un po’, fece un respiro profondo, ma proprio nel momento in cui stava per rispondere, gli scappò una scoreggia rumorosissima. L’entità con le fattezze di Mike Bongiorno strabuzzò gli occhi, cominciò ad emettere degli ultrasuoni stonatissimi, si girò e in un lampo scomparve dalla vista di Jòn, il quale stava blaterando parole tipo “No, mmm... no, scusate... oddio, che imbarazzo, no mi spiace, sono costernato... sarà stato che ho preso freddo... ero molto nervoso, non so cosa mi sia successo... io non volevo, vi giuro... perdono, vi prego...”.
L’entità che l’aveva confortato al risveglio gli si avvicinò e lo abbracciò, dopodiché Jòn svenne, e questa è l’ultima cosa che fece in vita sua.
Jòn Alhafssòn fu ritrovato alle 7 di mattina del 14 maggio 1978 in un vicolo di Osterby, privo di vita. La polizia disse che era stato ucciso, anche se non c’era nessun segno di colluttazione, perché quel che loro non potevano sapere è che Jòn era semplicemente spirato senza motivo apparente. Il movente di quell’omicidio non fu infatti mai ricostruito, ma il fatto che non avesse con sé denaro fece pensare a tutti ad un furto finito male.
Ma Jòn Alhafssòn non fu vittima di un furto andato a male, Jòn Alhafssòn morì perché ebbe la sfortuna di non riuscire a trattenere l’aria in pancia nel momento decisivo per sé e per tutta l’umanità.
Non sapremo mai quale avrebbe potuto essere il nostro destino, ma possiamo dire che c’è mancata una scureggia per saperlo.
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